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Candela: "Roma, segui Mourinho: è come Capello"

L'ex campione del mondo, testimonial giallorosso, ha vissuto con la squadra la tournée in Giappone: "Fabio rimane il migliore, José è super come lui nella gestione"
Giovedì 01 dicembre 2022
Vincent Candela ha 49 anni, da quando ne aveva 24 vive a Roma, con brevi esperienze al termine delle carriera di calciatore tra Bolton, Udinese, Siena e Messina. «Più della metà della mia vita l'ho trascorsa a Roma, anche se non rinnego le mie origini». Per capire chi è Vincenzo, come lo chiamano gli amici romani, bisognerebbe riascoltare il messaggio inviato al termine dell'intervista: «Mi piacerebbe evidenziare quello che è molto significativo per me. È cambiato il mio ruolo nella società, ma l'essenza è rimasta sempre la stessa: Forza Roma. Questo è quello che mi sento di dire e che vorrei emergesse dall'intervista». Candela è appena tornato dalla tournèe con la Roma in Giappone. Invitato dalla società come legend/testimonial.

Come ti devo chiamare?
«Lavoro con la Roma da qualche anno, ho partecipato a iniziative con Roma Cares, sono andato a parlare nei teatri ai tifosi, nelle scuole e nelle università agli studenti. Abbiamo portato la Coppa e ho raccontato il valore del derby. Un feeling consolidato con la Roma, la tournèe è servita a sviluppare il rapporto con il Giappone. Preferisco essere considerato un testimonial. Sono poche le leggende nel mondo e io non mi sento tale».

Scelto dalla Roma per rappresentarla in Giappone.
«Per parlare di sport, di passione, per trasmettere i valori del calcio e dei colori giallorossi. Nella As Roma anche se ho cambiato ruolo, sono sempre innamorato di questa città, di questi colori, di questa gente. Io tifo per la Roma, parlo sempre con tanto amore di questa squadra, anche nei momenti di difficoltà».

Un rapporto che si è consolidato negli anni.
«Penso di aver seminato bene. Ho cominciato questo ruolo con la nuova dirigenza, prima lavoravo con la Roma Tv, poi l'attuale società ha chiuso il canale e quando è finito il contratto per un anno non ho lavorato, non sono voluto andare da altre parti, anche se avevo proposte. Ho preferito aspettare, adesso posso dare la mia professionalità e la mia romanità in un altro modo».

Non era la prima volta che andavi in Giappone.
«Se ti ricordi ci siamo incrociati al Mondiale nel 2002 e poi nel 2004 con la Roma, durante il breve periodo di Prandelli in panchina. Questa è stata un'esperienza diversa, ma bella. Sono stato con loro, con i ragazzi, sono stato vicino alla squadra. Ho avuto modo di conoscere meglio i giocatori. Già conoscevo Pellegrini, Mancini, Spinazzola. Sono tornato indietro nel tempo, quando 20 anni fa scendevo in campo. Questa per me è stata una grande emozione, seguire gli allenamenti è stato molto bello».

Oggi i calciatori sono cambiati rispetto ai tuoi tempi?
«Non lo so, ho passato solo una settimana con loro. Certo, è cambiato il mondo ed è cambiato anche il calciatore, nel bene e nel male. Il calcio è bello per questa leggerezza. Anche se guagnano tanto questi ragazzi sono spiritosi, svegli, allegri. Mi ha fatto piacere stare fuori dal campo accanto a loro. C'è sempre il telefonino di mezzo, i social, le scuole calcio sono cambiate, di conseguenza anche il Mondiale, lo vediamo seguendo le partite in Qatar».

A proposito di telefonini. Nel 1999 dovevi lasciare la Roma per andare all'Inter. In ritiro a Kapfenberg ti facevi trovare con il telefonino a tavola per arrivare alla rottura, ma Capello non ti lasciò andare via.
«Ho grande rispetto per Zeman, mi ha dato tanto per la parte fisica e la disponibilità al sacrificio, ma litigavamo spesso, eravamo giovani. Dopo due anni avevo deciso di andare via, Zeman aveva fatto altre scelte. Poi è arrivato Capello, nessuno se lo aspettava. In un mese è cambiato tutto. In quel periodo per l'unica volta il rapporto con i tifosi è stato difficile. Avevo già festeggiato la mia partenza, perché io se saluto lo faccio con lo champagne e i fuochi d'artificio, non scappo di notte. La partenza sembrava sicura, sapevo che Zeman non mi voleva e più non si parlava di Capello. Ma poi la Roma mi diede la possibilità di stare dentro questa famiglia. In due settimane recuperai il rapporto con i tifosi e con Capello. Lui è ancora il mio allenatore preferito, non perché un sergente di ferro, ma perché mi ha dato molta fiducia e con lui ho reso al 300 per cento».

In quel periodo sei stato campione del mondo, campione d'Italia, uno dei più forti terzini sinistri del mondo.
«Non mi sentivo tale, anche se sono stato il terzino dell'anno in serie A, quando era uno dei migliori campionati del mondo. Non ho mai sentito il peso della responsabilità, sapevo che ogni anno dovevo migliorare, per confermarmi e per raggiungere altri obiettivi. Per me il migliore nel mio ruolo è stato Maldini, anche se tecnicamente ero più forte io. Diciamo che è stato un onore e un orgoglio far parte dei più bravi al mondo».

Roma è entrata a far parte della tua vita in modo fragoroso.
«Roma mi è entrata nel cuore subito, c'è poco da raccontare. I miei quattro figli, due maschi e due femmine, sono nati all'isola Tiberina. Ho vissuto più a Roma che in Francia. Anche mio figlio nato dal primo matrimonio, John John, è stato un anno con me a Roma quando è diventato maggiorenne. È stato molto bello. Ora vive in Canada».

Perinetti, il direttore sportivo di allora, mi raccontò che rovesciasti le scrivanie nella sede del Guingamp per lasciarti andare alla Roma.
«La trattativa si era arenata, vivevo una situazione strana, litigavo con l'allenatore e i dirigenti. Con tutto il rispetto per Guingamp non riuscivo a capire perché tarpare le ali a un ragazzo che aveva una grande occasione. Non lo trovavo giusto. Il Guingamp per la prima volta nella sua storia partecipò all'Europa League, io sono stato il primo giocatore del club ad andare in Nazionale. Anche io mi arrabbio in certe situazioni. Dopo 15 giorni turbolenti alla fine hanno accettato».

Alla Roma sei diventato subito amico di Totti.
«Siamo cresciuti insieme. Lui è più piccolo di me, abbiamo fatto tante battaglie e tante serate insieme. È stato il mio capitano, poi ognuno è cresciuto e ha fatto la sua strada, lui ha continuato a giocare per altri 10 anni e io ho fatto altro. Ma il rispetto e la stima dopo 25 anni sono intatti. In campo avevamo un grande feeling, quando gli davo il pallone sapevo che me lo ridava meglio di come lo aveva ricevuto. Quel feeling è rimasto, con tutti gli alti e bassi della vita».

Con Francesco avevi intrapreso l'esperienza della agenzia di scouting.

«Ma poi sono uscito due anni fa. È stato difficile per me calarmi in quella realtà. Per non far perdere tempo a lui e a me ho preferito lasciar perdere. Quel lavoro non era fatto per me, una cosa che non mi appartiene. Bisogna sempre chiedere. Ai giocatori, alle società, agli allenatori. Non mi piace chiedere e non sono fatto per quel mestiere».

Ti piace di più la ristorazione.
«Fa parte della mia vita. Anche quando giocavo ho avuto il ristorante a Trastevere, La dolce vita. Ci rimettevo ogni mese ma come cercavo di dare gioia ai tifosi in campo così mi piaceva far star bene i clienti al ristorante. Ora ho un altro locale, si chiama Qui e ora. Anche in questo campo si cresce e si cambia anche il nome, ma mi piace sempre dare soddisfazione al cliente. Io vado a mangiare e a correggere quello che non va, sono stato bravo a scegliere le persone, dallo chef alla direttrice».

Torniamo al calcio prima di chiudere. La Roma in Giappone ha mandato in campo tanti giovani.
«In una tournée come questa non è mai facile per l'allenatore e i giocatori. Però la squadra al primo anno di questa società ha portato un trofeo a casa. Era importante e non era scontato. Sono stato contento e lo sarei stato di più se fossimo arrivati quarti. Quest'anno l'obiettivo è fare sempre meglio per arrivare in Champions, ma non è facile. Ci sono stati tanti infortunati, Dybala ci manca, non ci voleva il derby. Prima della partita con la Lazio stavamo andando bene, poi con quella sconfitta c'è stato un calo. Ibañez diventerà uno dei difensori più forti al mondo, ma deve lavorare un po' sulla concentrazione. Dispiace per quel gol, da allora è cambiato qualcosa. Ma il campionato è ancora molto lungo, ho molta fiducia in questa società, in Mourinho, in Tiago Pinto. Ho sempre avuto fiducia anche nei momenti difficili».

Che analogie ci sono tra Capello e Mourinho?
«Sono due vincenti, sanno essere allenatori di grandi squadre. Puntano molto sulla gestione, del pubblico e della squadra. I risultati parlano per loro. Il lavoro sul campo di Mourinho non lo conosco, è molto diverso quello che è stato fatto in Giappone. So che Capello aveva un modo suo di lavorare durante la settimana, ma era sempre finalizzato a far dare il cento per cento ad ogni giocatore. Non ho mai parlato di calcio con Mourinho, non so come la pensa, ma nella gestione sono molto simili».

Eri anche a Tirana.
«Per forza. Anche se non sono andato con la Roma, ma per conto mio. Poi la Roma mi ha chiesto di andare in fan zone e l'ho fatto volentieri».

Chiudiamo un'intervista che è un atto d'amore.
«Oggi mi sento romano, ma le radici me le tengo strette. La grande libertà, la mia educazione. Poi sono arrivato in Italia, Roma mi ha dato tanto e io provo a restituire quello che ho ricevuto. Mi sento cittadino del mondo. Devo tanto ai miei genitori. Ora è rimasto solo mio padre. Anche loro hanno amato Roma. Le serate dal Pescatore a Ostia, o a casa con il mago Aliverini. I concerti di Zarrillo e di Califano. Mia madre era molto felice».
Fonte: Corriere dello Sport
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